giovedì 11 febbraio 2010

Sul precariato: parole, parole, parole

Non se ne può più. Seguire sui giornali il dibattito sul precariato, dei giovani e no, è davvero deprimente. Quasi tutti quelli che intervengono (soprattutto politici e giuslavoristi), non fanno che chiacchiere. Il lavoro è la prima vera emergenza di questo Paese, e il governo deve decidersi a fare qualcosa di concreto per ridare il futuro alle nuove generazioni, che ormai cominciano anche a invecchiare restando precari a tempo indeterminato.
Innanzi tutto gli stagisti. Sono tutti sfruttati. Invece di essere formati, i più sfortunati fanno fotocopie o ricerche on line; gli altri lavorano. Certo, il confine tra formazione e lavoro può essere labile, se però almeno questi ragazzi avessero alla fine qualche possibilità concreta.....
Poi, i co.co.pro, cioè i lavoratori "a progetto". Qualcuno ha mai visto un ispettore del lavoro andare in un'azienda a fare i controlli? A vedere cioè se ci sono davvero progetti da eseguire, o se si tratta di lavoro di routine con le caratteristiche del lavoro subordinato?
Veniamo alle chiacchiere. Ho preso in esame alcuni articoli usciti negli ultimi giorni sul Corriere della sera. Eccone una breve rassegna.
Il ministro Renato Brunetta continua a dare i numeri. Dopo aver proposto la modifica dell'art. 1 della Costituzione, là dove dice che la nostra Repubblica è fondata sul lavoro; dopo aver proposto un'indennità di 500 euro al mese ai giovani per stimolarli a uscire di casa, adesso (4 febbraio 2010) dice che i padri ipergarantiti sono responsabili della precarietà dei figli. Il rimedio? Il solito: modificare il famigerato articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.
Le chiacchiere continuano con la replica del giuslavorista Pietro Ichino (8 febbraio 2010): bisogna riscrivere il diritto del lavoro, vecchio di quarant'anni, in modo che possa essere applicato a tutti i rapporti di lavoro.
Gli risponde un altro teorico, Michele Tiraboschi, docente di Diritto del lavoro all'università di Modena (9 febbraio 2010): non sono le leggi a creare il lavoro, ma gli investimenti nel sapere e nella conoscenza. E poi azzarda questa ipotesi: le aziende vorrebbero dare ai giovani il posto fisso, ma non trovando nessuno con la preparazione richiesta, preferiscono assumerlo con contratto atipico, per avere il tempo di prepararli (!). Colpa dei giovani, insomma.
Lucida e pragmatica, finalmente, la visione di Susanna Camusso, segretaria confederale della Cgil (9 febbraio 2010): siamo l'unico Paese al mondo ad avere 45 tipologie contrattuali quando ne basterebbero tre: contratto a tempo indeterminato, apprendistato con formazione, contratti a termine solo per la stagionalità. E conclude: "Il fatto che in questi anni si sia fatta avanti la convinzione che sia vincente la diminuzione dei diritti e dei salari è profondamente sbagliata e la prova è arrivata con la crisi: di certo l'art. 18 non impedisce alle aziende di licenziare".
Chiude il cerchio l'ineffabile Brunetta (10 febbraio 2010): dobbiamo offrire ai nostri giovani un rendimento adeguato all'investimento in denaro e fatica che la conoscenza e l'istruzione richiedono. Non si tratta di assicurare solo difese e protezione (ma dove? ma quando?), ma le opportunità, che spesso vengono loro negate, di far valere le loro competenze, anche nei confronti dei padri (ancora). E conclude che non è un obiettivo facile, ma non è possibile eluderlo.
E allora, che cosa si aspetta?

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