martedì 27 marzo 2012

Lavoratori "abusati" ed "esodati". Perché?

Le esigenze di sintesi, nella scrittura dei giornali, partoriscono spesso dei neologismi che sono dei veri mostri linguistici. E' il caso di due parole come "abusati" ed "esodati".
I primi sono i lavoratori parasubordinati, impiegati con contratti finti (co.co.pro, certe partite Iva) non conformi alla legge, che li discriminano, a parità di mansioni e prestazione, rispetto ai colleghi subordinati: una categoria creata in anni di violazioni da parte delle aziende passate nell'indifferenza generale, anche del sindacato, e cui la recente proposta di riforma del lavoro si limita a fare solletico.
I secondi sono i lavoratori che avevano concordato l'uscita dall'azienda per andare in pensione e d'improvviso, con una riforma pensionistica discutibile, si sono visti cambiare le regole in corsa e allungare di qualche anno l'attesa; sono rimasti così di colpo senza stipendio e senza pensione.
Si possono stigmatizzare le offese alla nostra bella lingua, però quel che più offende è l'ingiustizia propagata da un governo che doveva agire sì con rigore, ma anche con equità. Una riforma imperfetta avrebbe potuto farla la politica, da tecnici preparati ci si poteva aspettare di più.

sabato 24 marzo 2012

Da Monti e Fornero parole, parole, parole

Il 18 dicembre 2011, a un mese circa dal suo insediamento, il governo Monti annunciò che avrebbe affrontato la riforma del mercato del lavoro.
Tre gli obiettivi principali: il depotenziamento dell'art. 18 (nonostante molte dichiarazioni di segno opposto del governo, che disse che nulla sarebbe cambiato per i lavoratori dipendenti attualmente in attività), lotta al precariato e welfare per tutti.
Il risultato che abbiamo sotto gli occhi è molto inferiore alle aspettative.
L'art. 18 per i licenziamenti per cause economiche viene effettivamente smantellato; la lotta alla precarietà è solo prurito e il welfare esclude i lavoratori "a progetto".

venerdì 23 marzo 2012

Per il lavoro un disegno di legge giusto e pericoloso

La proposta di riforma del mercato del lavoro diventa un disegno di legge e verrà discussa in Parlamento.
Notizia positiva, perché si spera che l'intera classe politica abbia voglia di riscatto, dopo prove molto deludenti, e produca, con opportune correzioni, una legge migliore della proposta governativa. Notizia negativa, perché vuol dire discussioni infinite, un numero imprecisato di emendamenti, anche di ostruzione, e rischio che alla fine tutto resti lettera morta.
Che ne è stato, infatti, dei diversi disegni di legge con proposte di modifica del mercato del lavoro presentati, soprattutto dal centrosinistra, negli ultimi anni? Non sono neppure entrati nell'agenda del dibattito in aula.
Le reazioni a questa notizia sono state ovviamente di segno opposto. Da un lato Bersani, soddisfatto per la scelta del disegno di legge, ha sottolineato che è giusto così perché si deve restituire al Parlamento la sua funzione e, tutto sommato, non c'è alcuna urgenza (ripeta, per favore, quest'ultima affermazione a chi - soprattutto precari - vede in questa legge almeno un piccolo segno di cambiamento). Gli ha risposto Alfano dicendo che, se verranno introdotti cambiamenti, anche il centrodestra vorrà cambiare qualcosa.
Ci risiamo.

Riforma del lavoro: si poteva (potrebbe) fare meglio

I colloqui tra governo e parti sociali sulla riforma del mercato del lavoro sono andati così così. Alla fine i professori hanno presentato una proposta "in una prospettiva di crescita" che è piaciuta solo a Confindustria. Brutto segno. Il dibattito si è svolto prevalentemente attorno all'art. 18 dello Statuto dei Lavoratori che, a dire il vero, non doveva essere "il" problema. Almeno come primo passo.
Il problema vero, quello più urgente, doveva essere quello della fine della precarietà; precarietà da trasformare in stabilità, nei casi di abuso conclamato da parte delle aziende (cioè nella maggior parte dei casi), oppure in flessibilità "buona", cioè meglio pagata.
Poco è stato fatto in questo senso. La proposta del governo disincentiva timidamente il ricorso ai contratti a termine e introduce l'apprendistato come porta principale, fino a 29 anni, per entrare nel mondo del lavoro, porta attraverso la quale però a fine periodo passa solo una parte degli apprendisti che vengono assunti; gli altri dovranno cercare altrove.
L'annunciato disboscamento della giungla dei contratti (una quarantina) che causano precarietà non è avvenuto. Con due eccezioni parziali: l'abolizione delle finte partite Iva (escluse quelle dei lavoratori iscritti agli Ordini professionali) e la loro trasformazione in lavoro subordinato, e la cancellazione dei contratti di società in partecipazione (esclusi quelli sottoscritti tra famigliari).
Lo scandalo dei co.co.pro sembra destinato a continuare perché la presunzione, come dice il governo, che si tratti di lavoro subordinato va dimostrata (e non si sa da chi e con quali strumenti) e perché il previsto aumento del costo del lavoro flessibile a carico degli imprenditori verrà facilmente riassorbito diminuendo, di fatto, la retribuzione. Dov'è finita, quindi, la promessa che le retribuzioni per il lavoro flessibile sarebbero state più alte di quelle del lavoro dipendente?
Penso che il governo Monti, per equità, avrebbe dovuto prima di tutto sanare la grande quantità di abusi commessi ai danni di una moltitudine di lavoratori, ai quali con contratti finti non viene riconosciuta alcuna anzianità di servizio agli effetti del TFR e del welfare, e ai danni dell'Inps, cioè della collettività. Questi abusi sono violazioni, da parte degli imprenditori, di una legge sia pure imperfetta (non sono previsti controlli sulla conformità dei contratti) ma, come ogni violazione di legge, andrebbero puniti restituendo ai lavoratori quel che a loro è stato ingiustamente tolto.
Solo dopo aver sanato queste ingiustizie, il governo avrebbe dovuto mettere mano al complesso di regole che disciplinano il mercato del lavoro, non mettere subito nel mirino, per abbatterlo, l'articolo 18 sollevando un polverone che ha confuso le carte in tavola.

giovedì 15 marzo 2012

Un ricordo personale di Giorgio Bocca

L'altro ieri Milano ha ricordato Giorgio Bocca, partigiano, giornalista e storico scomparso da due mesi, nato montanaro e milanese d'adozione. Anch'io ho un ricordo personale di Bocca. Verso la fine degli anni '60 lavoravo in una azienda commerciale, studiavo economia all'università Cattolica, la occupavo in nome del diritto allo studio e sognavo di fare la giornalista da grande.
Un giorno, forse un po' ingenuamente, scrissi una lettera ad alcuni colleghi importanti che stimavo, tra cui Giorgio Bocca, per chiedere loro che cosa dovessi fare per diventare giornalista. Domanda frequente, non essendoci allora scuole di giornalismo, e alla quale di solito gli interpellati non rispondevano. Invece Bocca mi rispose e mi invitò ad andarlo a trovare. Non ci credevo.
Fu molto disponibile e, direi, paterno. Mi disse che non dovevo smettere di bussare a tutte le porte finché una non si fosse aperta (allora poteva anche accadere), e poi di cercare sempre la verità con cocciutaggine. Messaggio importante certo, ma per me, in quel momento, a vent'anni, fu altrettanto importante che mi avesse ricevuto personalmente e non mi avesse liquidato con parole di circostanza. Quel suo comportamento mi aiutò molto psicologicamente e fu la molla che mi spinse a non rinunciare alla mia idea neppure davanti a difficoltà che mi sembravano insormontabili.
Grande Bocca. Quanti sono oggi i giovani che vengono ascoltati, non dico dai maestri, ma almeno da un caporedattore?

giovedì 8 marzo 2012

8 marzo. Ma questo non è un Paese per donne

8 marzo, festa delle donne. La cronaca dei giornali continua a essere piena di donne molestate, offese, umiliate, stuprate, assassinate. Un femminicidio costante per cui i colpevoli pagano poco o nulla. Se questo non è un Paese per donne, che si smetta almeno di nascondersi dietro a un rametto di mimose.