venerdì 31 maggio 2013

Blitz degli ispettori del lavoro nelle case editrici

Da ieri gli ispettori del lavoro sono impegnati a esaminare la posizione di ogni persona trovata dietro una scrivania o davanti a un computer negli uffici e nelle redazioni di alcune case editrici milanesi (Mondadori, Rcs Libri, Sperling&Kupfer, Piemme). E' la prima grande azione di controllo a tappeto della legalità in un settore dove il precariato è da molti anni l'unica forma di assunzione praticata.
Nelle case editrici italiane  il 90% dei lavoratori è precario: false partite Iva, falsi contratti a progetto e ogni altro escamotage per sfuggire perfino a una normativa discutibile come la legge Fornero, sono stati e vengono messi in atto dalle aziende, creano nuova precarietà e consolidano quella esistente. Questa l'estrema sintesi della recentissima inchiesta "Editoria invisibile" realizzata a livello nazionale dall'Ires Emilia-Romagna per il Sindacato lavoratori della comunicazione (Slc) della Cgil.
Un risultato che non ha stupito gli addetti ai lavori; da anni, nell'indifferenza generale, tutti erano a conoscenza di questa piaga sociale e invano ogni tanto qualcuno aveva invocato l'intervento degli ispettori del lavoro nelle redazioni librarie. L'inchiesta svolta per il sindacato ha il grande merito di aver quantificato finalmente l'entita' degli abusi ai danni dei lavoratori, delle loro famiglie e, per ultimo ma non meno importante, per le casse dell'Inps.
C'è da augurarsi che alla fine di dell'ispezione venga versato alle casse dell'Inps quanto dovuto e ai contratti atipici che si riveleranno falsi venga riconosciuta la natura di contratti di lavoro a tempo indeterminato restituendo così a tutti i lavoratori "abusati" diritti e dignità. 



mercoledì 22 maggio 2013

Caro don Gallo, anche morto sarai sempre vivo

La notizia della morte di don Gallo mi addolora molto. Tra poco leggeremo sui giornali aneddoti, testimonianze, ascolteremo in tivù voci che lo ricordano. Il mio ricordo personale è quello di un incontro (settembre 2008) alla festa dei suoi 80 anni in uno scantinato di Milano dove un gruppo di amici e di ragazzi della sua comunità (San Benedetto al Porto) aveva improvvisato un rinfresco con vino, focaccia genovese e salame. In un'intervista improvvisata rispose con la solita arguzia e vivacità alle domande impertinenti di Claudio Sabelli Fioretti sorprendendo talvolta perfino lo stesso Claudio, il più corrosivo degli intervistatori. Poi si mise a disposizione di chi voleva parlargli, sentirlo più vicino. Avevo un peso sul cuore, glielo ho confidato e le sue parole mi hanno fatto bene.
L'ultima volta invece l'ho ascoltato a Manarola, estate 2011, in un bellissima serata di luna d'agosto. Seduti per terra sulla calata a mare, tra barche, remi e reti di pescatori, noi che eravamo lì per lui da qualche ora (arrivò con molto ritardo, su e giù per i tornanti delle Cinque Terre, ma seppe farsi subito perdonare con una battuta; durante il viaggio in auto stava ascoltando un notiziario che veniva sempre disturbato dalle interferenze dalla potente frequenza di Radio Maria: "Belìn", disse, "non sapevo che la Madonna parlasse in una radio!"), noi, dicevo, eravamo affascinati dai suoi racconti e attratti dal suo sottolineare il primato della coscienza sulla fede, dal suo operare, instancabile, in favore degli ultimi, degli emarginati, dei "diversi", dei giovani. Proprio ai giovani ha poi dedicato uno dei suoi ultimi libri, Non uccidete il futuro dei giovani (Dalai 2011) in cui, consapevole del dramma delle nuove generazioni allo sbando, denuncia la finanza che ha distrutto l'industria e umiliato il lavoro e non esita a esortare più volte: "Giovani, incazzatevi!".
Un prete scomodo, spesso in contrasto con le gerarchie ecclesiastiche, uno che andava solo "in direzione ostinata e contraria", un prete "da marciapiede" oppure un prete "angelicamente anarchico", come gli piaceva definirsi. La sua Chiesa non era quella dello sfarzo delle grandi liturgie, dei troni e del potere, la sua chiesa era impregnata di umanità, era quella del popolo. Un prete di cui si sente già la mancanza.
Caro don Gallo, non dimenticherò mai il tuo insegnamento: "Le mie bussole sono due. Come partigiano e come essere dotato di una coscienza civile la mia prima bussola è la Costituzione. Come cristiano, la mia bussola è il Vangelo". Memorabile quando ha cantato "Bella ciao" nella sua chiesa. Ne ho appena rivisto il video e ho provato un'emozione ancora più forte della prima volta.
Nel suo libro Così in terra come in cielo (Mondadori 2010) don Andrea Gallo ha scritto: "Avete paura della morte? Io sì, tanta. Ma è misteriosamente la nostra strada. La morte è dura separazione ma fa parte del percorso verso il nuovo, è una trasformazione, un'esplorazione. E i defunti sono invisibili, ma non assenti.
Certo, se mi venisse concessa una proroga sarei contento......".
La proroga, caro don Gallo, non è arrivata, ma adesso che sei proprio vicino a Gesù, forse hai più possibilita' di farti ascoltare, magari riesci a essere più convincente. Chissà mai.....

giovedì 16 maggio 2013

Morti sul lavoro: dire basta non basta

Ieri sono stati celebrati i funerali delle otto vittime (la nona è ancora dispersa) dell'incidente nel porto di Genova. Davanti al presidente Napolitano il cardinale Bagnasco ha lanciato un monito al quale purtroppo ci stiamo abituando: "Tragedie come questa non devono più accadere". "Si faccia giustizia" è invece l'appello accorato di chi resta. Mai parole come queste vengono regolarmente così disattese.
Chi non ricorda i morti dell'acciaieria ThyssenKrupp? O quelli della raffineria Saras? O quelli, anonimi, che ogni giorno lasciano la vita ai piedi di un'impalcatura o in un ingranaggio? Le statistiche dicono che in Italia ci sono ogni giorno tre/quattro morti sul lavoro. Le tragedie si ripetono e giustizia non è mai fatta.
Si perde la vita sul lavoro in un Paese dove le norme di sicurezza non sono sempre rispettate e, a maggior ragione, nei Paesi dove norme di sicurezza non ce ne sono in nome del profitto selvaggio. Negli ultimi giorni anche la globalizzazione ha mietuto tante vite umane. Le 1.127 vittime di Dacca (Bangladesh) travolte dal crollo dell'edificio di un'industria tessile dove cucivano low cost capi d'abbigliamento per le multinazionali (anche la Benetton coinvolta a causa, ha spiegato l'azienda italiana, di un fornitore che aveva subappaltato il lavoro) che così potevano aumentare i loro profitti. E' di ieri la notizia del crollo in Cambogia di una fabbrica di scarpe da esportare in Europa e negli Stati Uniti: i morti per adesso sono sei.
Solo una politica globale di crescita nell'equità sociale potrebbe porre almeno un freno agli incidenti mortali. Forse è il momento di aprire un grande dibattito sulla responsabilità sociale delle imprese che offra non solo affascinanti teorie ma soprattutto soluzioni concrete e un nuovo modello di sviluppo.



mercoledì 8 maggio 2013

La mancanza di lavoro uccide nell'indifferenza

Un trafiletto di 19 righe in cronaca e un titolo che in sintesi svela tutta la tragicità della notizia: "Rimasto senza lavoro si impicca in garage". Ci vuole un occhio allenato per scorgere tra le "brevi" del Corriere della Sera di ieri l'ennesima  notizia dell'ennesimo suicidio (stavolta la vittima è T. R. un 44enne di Zeccone (Pavia), sposato, due figlie), dovuto alla perdita del lavoro e alla conseguente impossibilità di far fronte alle esigenze primarie della famiglia. Un dramma della disperazione vissuto mettendo in gioco la propria vita, e perdendola, mentre si sa che i responsabili non pagheranno mai.
Ci si abitua a tutto, anche alla morte incivile di un padre di famiglia, notizia relegata nelle pagine regionali, mentre dovrebbe occupare tutta la prima pagina e ogni cittadino onesto dovrebbe gridare allo scandalo con tutta la voce che ha.
Quanti lavoratori dovranno ancora morire prima che il governo si occupi, seriamente, concretamente e con equità, della più grave emergenza  del nostro Paese? Rilancio dell'economia e lavoro, lavoro e rilancio, questi devono essere gli obiettivi più immediati. Quanti dovranno ancora pagare, nell'indifferenza più totale, il prezzo altissimo di una crisi che, impotenti, hanno dovuto subire mentre chi aveva il potere si trastullava con giochi e giochini, accordi palesi o sottobanco di spartizione di posti ben remunerati nella pubblica amministrazione, schermaglie di una continua e stucchevole campagna elettorale, avendo come unico obiettivo l'abolizione incondizionata dell'Imu? Oppure mentre molti altri cittadini, disonesti, continuavano a mandare i loro capitali in sicuri forzieri all'estero evadendo le tasse? Queste morti indegne di un Paese civile in uno Stato di diritto non avranno mai giustizia. Almeno che non siano morti inutili. 

giovedì 2 maggio 2013

Caro Letta, nel lavoro l'unica rigidità è la precarietà

Ieri, primo maggio, festa dei lavoratori, il presidente Letta ha pensato bene di dare l'ennesimo colpo ai precari. Enrico Letta, tra una breve pausa e l'altra del suo tour europeo Berlino-Parigi-Bruxelles, invece di dare una speranza a chi vive nel precariato da quando ha iniziato a lavorare, magari da anni, da sempre, e a chi si affaccia adesso per la prima volta al mondo del lavoro, ha detto che bisogna eliminare le rigidità della legge Fornero per aumentare la flessibilità, soprattutto nei contratti a termine.
"Ci sono alcuni punti della legge Fornero che, in questa fase recessiva, stanno creando dei problemi", ha spiegato Letta.
Lungi da me l'idea di difendere la nefasta legge Fornero, di quale rigidità parla Enrico Letta? Si sa, per esempio, che le aziende, oltre alle nuove regole sui contratti a tempo determinato cui si riferisce Letta, non hanno mai digerito anche il risibile aumento del costo del lavoro dei contratti atipici voluto, pure questo, dalla Fornero per scoraggiare la precarietà (mai pensato eh, di scoraggiare la precarietà attuando rigoroso controlli nelle aziende che la praticano con assoluta arroganza?); aumento che non ha centrato questo obiettivo e invece ha provocato il contrario, cioè una serie di licenziamenti da parte delle aziende che ritenevano questo ritocco insopportabile e l'assoluta indifferenza di altre che hanno continuato comunque ad applicare e a rinnovare imperterrite contratti fuorilegge.
Nel lavoro la rigidità più dannosa e presente nell'ampia gamma di contratti, caro presidente Letta, è quella che inchioda milioni di lavoratori a una "stabile precarietà". Altro che flessibilità (sulla quale, se si rispettassero le regole, ci sarebbe nulla da dire)!
Qualcuno dirà che il lavoro non c'è, la disoccupazione aumenta, e non è il caso di andare tanto per il sottile; allora si governi con più coraggio se non si vuole che scoppi una devastante bomba sociale. Troppo facile prendersela con i soliti che non hanno voce.