martedì 10 settembre 2013

Anche la precarietà è una catena che ci blocca

Caro presidente Letta, durante i recenti incontri al Workshop Ambrosetti di Cernobbio lei ha fatto, tra le altre, una dichiarazione che mi ha colpito molto: "La mia missione è rompere le catene che bloccano l'Italia". E subito dopo, annunciando il decreto legge sulla scuola, è stato esplicito nel sostenere che il rilancio del nostro Paese discende dal rilancio dell'istruzione. Ben detto. Vorrei dire tra non molto: ben fatto.
Sappiamo bene che le sorti del suo governo sono legate ai capricci di un pregiudicato che da vent'anni tiene in ostaggio le vite della stragrande maggioranza degli italiani (chi non l'ha votato e chi si è astenuto). Ma fin che il suo governo ha un filo di respiro si impegni seriamente anche su un altro fronte fondamentale per la nostra ripresa, quello del lavoro.
L'attuale sistema-lavoro è quanto di più pasticciato esista. C'è un'infinità di contratti o simil-contratti, cui improvvidamente il suo governo ha aggiunto anche quelli Expo (ce n'era proprio bisogno? Non potevano bastare, allo scopo, i contratti a progetto? L'Expo non è forse un grandissimo progetto cui far fronte, per le esigenze occupazionali, con il contratto propriamente detto "a progetto"?).
Lei lo sa che c'è una generazione che il suo predecessore, senza neppure quell'espressione un po' snob che gli era solita, di lieve disappunto o insofferenza per certi temi fastidiosi come una mosca, ha oggettivamente e scientificamente definito "perduta"? Come a dire, beh, ci sono alcuni milioni di cittadini italiani sfruttati, precari e abusati sul lavoro perché sono nati in anni sbagliati, pazienza.
Ho letto che ci sarebbe un programma di stabilizzazione dei precari della Pubblica Amministrazione. E gli altri? Certo, alla regolarizzazione degli altri dovrebbero pensare le aziende che ne abusano. Ma quando mai lo faranno se governo e sindacati continuano a ignorare il problema oppure, quando non lo ignorano, ne peggiorano la situazione con accordi e interventi normativi improntati a una "stabile precarietà" che certa classe politica e imprenditoriale chiama "flessibilità"?