venerdì 14 gennaio 2011

Il cielo sopra Torino (di Marco Brando)

Alla Fiat Mirafiori di Torino oggi si sta votando per decidere se l'accordo firmato da tutti i sindacati (a parte Fiom Cgil e Cobas) piace a oltre 5mila operai: qualche soldo in più in busta paga e la "salvezza della fabbrica" in cambio di meno pause, più ore di lavoro, più controlli, meno spazi sindacali.
Forse di questi tempi è giusto. Forse no. Ma non è questo che voglio scrivere: oltre tutto, anche se ho le mie idee, richiederebbe molto spazio. Però voglio dire che ieri mi ha colpito un anziano operaio. Intervistato in tv, ha detto a viso aperto: "Io sono vecchio, ma voterò 'No'. Tra un anno me ne andrò in pensione, ma non voglio contribuire a lasciare ai giovani una brutta cosa". Non si è nascosto, si è esposto per esprimere la solidarietà sua e, indirettamente, della vecchia classe operaia.
Oggi il termine solidarietà sembra quasi superato. Ancor più nel mondo del lavoro, frammentato dai contratti a termine e dalla crisi del sindacato. I giovani lavoratori (già fortunati se si considera che un ragazzo su cinque è disoccupato) sempre più spesso hanno contratti a termine e quindi sono quasi sempre preoccupati per il futuro e facilmente ricattabili.
Però la testimonianza di quell'anziano lavoratore mi ha davvero colpito. E mi ha fatto riflettere sul ruolo che la classe operaia per molti decenni ha avuto in Italia (a prescindere dal vecchio Pci); tra gli operai la solidarietà, l'etica e l'orgoglio del lavoro, la coscienza di classe (come si diceva una volta) sono stati uno dei principali pilastri su cui si è retto anche il tessuto morale di questo disgraziato Paese, dai sentimenti così volatili.
Ora quel pilastro non c'è quasi più, qualcosa regge ma senza architravi importanti. Si sta costruendo una società in cui la prepotenza, il narcisismo, l'egocentrismo dovrebbero essere le "forze vitali": la "non solidarietà" trasformata in ideologia, insomma.
Qualcuno dirà che la fine della classe operaia è scritta e inevitabile; può darsi, la Storia ci insegna che la società muta e cambiano anche le forze sociali in campo. Però io spero che nascano alternative che offrano alla nostra società (italiana e non solo) la possibilità di riscoprire l'orgoglio di una comunità, unica strada per trovare la forza di andare avanti anche nei momenti più difficili.
E mentre scrivo queste parole penso a mia madre, operaia tra gli anni Sessanta e Settanta, morta di fabbrica: ricordo che ero piccolo, lei tornava a casa la sera e mi dava un bacio. I suoi abiti da lavoro emanavano un odore di metallo. Mi stringeva. E ogni tanto sentivo le punture delle piccole schegge di ottone che le rimanevano conficcate nella pelle delle mani. Per Natale il padrone regalava uno scatolone con panettone, pelati, torrone. Lai lavorava anche il sabato. Le sirene delle vicine fabbriche scandivano la giornata anche per chi stava fuori: inizio lavoro, pause, fine lavoro.
Dopo il varo dello Statuto dei Lavoratori nel 1970 (ora lo stanno trasformando in una scatola vuota), le condizioni migliorarono. Peccato che nella fabbrica di mia madre si usasse l'amianto e quando lei si ammalò l'asbestosi non era neppure considerata una malattia professionale. Se n'è andata nel 1976. Io avevo 18 anni.
Dedico queste considerazioni a lei e a tutti gli operai del mondo.
(Dal blog di Marco Brando, professionereporter.splinder.com - Nella foto, il manifesto del film "La classe operaia va in paradiso", di Elio Petri, con Gian Maria Volonté, 1972).

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