Quindicimila lavoratori e le loro famiglie per continuare ad avere mezzi di sussistenza sono sotto una specie di ricatto. Sono le maestranze (indotto compreso) della Fiat di Pomigliano d'Arco (Napoli), la fabbrica in cui Sergio Marchionne, amministratore delegato dell'azienda torinese, potrebbe riportare la produzione della Panda (attualmente in Polonia) a patto che i lavoratori accettino il piano dell'azienda, che prevede sì un cospicuo investimento (700 milioni di euro), ma anche una diminuzione dei loro diritti.
Perché si è arrivati a questo punto? La Fiat è un'azienda che molto ha dato all'economia italiana, ma altrettanto (se non di più) ha avuto. In ogni caso resta un elemento fondamentale per il nostro sistema-Paese. E se spesso ha trasferito delle produzioni all'estero, è anche perché qualche responsabilità pure i lavoratori (eccesso di assenteismo) e il sindacato (scioperi talvolta pretestuosi) ce l'hanno. Quando poi i nodi vengono a pettine, a pagare sono tutti, senza distinzione tra chi fa il proprio dovere e chi fa il lavativo.
Certo, Marchionne per la Fiat ha fatto anche bene, e senza di lui forse Pomigliano non esisterebbe più. Ma questi sono tempi barbari, in cui a chi lavora, anche a causa di certi errori del passato, possono venire richiesti sacrifici sempre più duri, come quello di rinunciare a certi diritti acquisiti: nell'emergenza la priorità è salvare i posti di lavoro.
Quando una persona sta affogando deve aggrapparsi a qualunque cosa galleggi, anche se non è a norma.
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