giovedì 16 maggio 2013

Morti sul lavoro: dire basta non basta

Ieri sono stati celebrati i funerali delle otto vittime (la nona è ancora dispersa) dell'incidente nel porto di Genova. Davanti al presidente Napolitano il cardinale Bagnasco ha lanciato un monito al quale purtroppo ci stiamo abituando: "Tragedie come questa non devono più accadere". "Si faccia giustizia" è invece l'appello accorato di chi resta. Mai parole come queste vengono regolarmente così disattese.
Chi non ricorda i morti dell'acciaieria ThyssenKrupp? O quelli della raffineria Saras? O quelli, anonimi, che ogni giorno lasciano la vita ai piedi di un'impalcatura o in un ingranaggio? Le statistiche dicono che in Italia ci sono ogni giorno tre/quattro morti sul lavoro. Le tragedie si ripetono e giustizia non è mai fatta.
Si perde la vita sul lavoro in un Paese dove le norme di sicurezza non sono sempre rispettate e, a maggior ragione, nei Paesi dove norme di sicurezza non ce ne sono in nome del profitto selvaggio. Negli ultimi giorni anche la globalizzazione ha mietuto tante vite umane. Le 1.127 vittime di Dacca (Bangladesh) travolte dal crollo dell'edificio di un'industria tessile dove cucivano low cost capi d'abbigliamento per le multinazionali (anche la Benetton coinvolta a causa, ha spiegato l'azienda italiana, di un fornitore che aveva subappaltato il lavoro) che così potevano aumentare i loro profitti. E' di ieri la notizia del crollo in Cambogia di una fabbrica di scarpe da esportare in Europa e negli Stati Uniti: i morti per adesso sono sei.
Solo una politica globale di crescita nell'equità sociale potrebbe porre almeno un freno agli incidenti mortali. Forse è il momento di aprire un grande dibattito sulla responsabilità sociale delle imprese che offra non solo affascinanti teorie ma soprattutto soluzioni concrete e un nuovo modello di sviluppo.



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