sabato 28 novembre 2015

Poletti parla parla parla. Ma cosa dice?

In due giorni il ministro del Welfare Giuliano Poletti si è distinto con un paio di dichiarazioni che, se non avesse quella specie di elmo capelluto in testa, non avrei esitato a definire ironicamente il prodotto di una delle teste metaforicamente più lucide della squadra di governo.
Con la prima ha dato la colpa del ritardo con cui i nostri giovani laureati si affacciano al mercato del lavoro al fatto che danno troppa importanza al voto di laurea e così, inseguendo il 110 e lode, "che non vale un fico", perderebbero solo tempo. "Meglio 'bruciare' tutto in tre anni e portare a casa un 97 a 21 anni piuttosto che il voto più alto a 28 anni!".
Meglio un uovo oggi che una gallina domani verrebbe da dire con tristezza pensando ai sacrifici di una moltitudine di famiglie per far studiare i figli. Ma chi ha costruito il percorso di formazione universitaria dei giovani con il 3+2? Certo non i ragazzi che, col sistema attuale, sostengono l'esame di maturità a 18 anni e poi hanno davanti cinque anni di università (sei anni per medicina senza la specializzazione).
Per affrontare la competitività internazionale avendo buone carte da giocare occorrerebbe una riforma dell'intero sistema formativo. Ma, a giudicare dalle riforme (scuola e lavoro, tanto per citarne due) fatte da questo governo troppo in fretta e molto
male, ho qualche dubbio che possa uscirne qualcosa di davvero positivo.
La seconda sparata: "Il metodo di misurare il lavoro in ore è un attrezzo vecchio!". "Un attrezzo vecchio?".
Il tatto e le capacità di mediazione di Poletti, quando ha pronunciato queste parole, sono apparsi davvero esagerati. E' evidente che il mondo del lavoro da oltre una decina d'anni sta subendo una trasformazione epocale, segnata soprattutto dalla perdita di diritti dei lavoratori, e il tema che il ministro pone ha molte sfaccettature e andrebbe eventualmente studiato da tutte le parti sociali coinvolte.
Poiché invece questo governo ha sempre imposto il suo pensiero unico sulle grandi questioni sociali sottraendosi a ogni confronto, ecco che questa dichiarazione ha sollevato subito una montagna di polemiche giustificate.
Quando il ministro aggiunge che "dovremmo immaginare contratti che non abbiano come unico riferimento l'ora-lavoro", che cosa vuole dire?
La mia impressione è che il nuovo strumento (contratti che non abbiano come unico riferimento l'ora-lavoro) che dovrebbe sostituire "l'attrezzo vecchio" può essere molto pericoloso per i lavoratori se maneggiato male.

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